di Andrea Andyj
Argomento non facile quello della nightlife. È un qualcosa che mi appartiene da anni ormai; ne parlo come un addetto ai lavori, ormai marginale, consumato ma non troppo, quasi disamorato, certo, ma pur sempre uno che ancora ne fa parte.
Vedo, di anno in anno, una parabola discendente nel mondo della notte, un qualcosa di irreversibilmente decadente: tanta quantità, poca qualità.
Metto dischi da quasi vent’anni ed appartengo ad una delle ultime generazioni di discjockey che hanno assistito al marciume progressivo dell’altra faccia del giorno.
Una notte che, ad eccezione di pochi lampi e diademi con segno più, raschia un barile che sa di stantío, di vuoto, di niente.
I locali sono in ostaggio di “piottari” cantastorie, travestiti da proprietari, pr, organizzatori, saltimbanchi e sgallettate varie. Il tutto è lo specchio dei tempi e, questa città, ha ben poco da offrire.
Ricordo gli anni 90, ultimo decennio ricco di situazioni, eventi, fermento e zero telefonini. Quei telefonini che oggi castano il piacere dello stare al tavolo o, semplicemente, levano agli artisti, l’onere di farsi ascoltare, apprezzare (più o meno) dai clienti.
Tanta colpa risiede anche nei miei colleghi dj’s o, perlomeno, coloro i quali si sono piegati sui 90 gradi, al cospetto dei diktat di mercato e/o organizzativi. Quelli che, per un nichelino, si son venduti come entreneuse, dignità, faccia (da culo) e famiglia.
La movida decade, scade, vittima del Dio denaro, sempre più, ove la musica passa in secondo piano, dove anche il più becero improvvisato, può salire su un mixer e dire la sua…. se porta gente, droga e bagasce.